La vita è adesso… a Locorotondo

Era un luglio da canicola, da restare con le cosce appiccicate sui sedili in pelle marron del pullman della Sud Est: alle 8 del mattino, dai finestrini spalancati, entrava solo aria calda.

Avevamo 15 anni e l’autobus era la cosa più bella per andare al mare: come una gita scolastica che si ripeteva ogni mattina. Amicizie che si creavano e sfaldavano, amori che nascevano e morivano: ogni cosa avveniva con la stessa velocità con cui ingurgitavi un croccante Algida all’amarena. Era tutto veloce ma ci sembrava infinito e per sempre.

Quel giorno però fu diverso perché scendendo a mare (al mare, da qui, non si va, perché non è un viaggio, ma si scende, come fosse un pezzo di casa che abbiamo preferito lasciare lì per comodità)trovammo la strada completamente tappezzata di manifesti. Le ragazze iniziarono ad urlare così forte che fummo costretti a mettere da parte la Gazzetta dello Sport che parlava di Paolo Rossi che dalla Juve andava Milan per capire che stava succedendo quello che nessuno pensava sarebbe potuto accadere.

Adesso tutti voi che leggete queste righe, anche chi non c’era in quegli anni lì, deve provare a fare un piccolo esercizio: chiudere gli occhi ed immaginare un mondo dove il telefono era quello fisso o a gettoni, internet un semplice protocollo su cui pochissimi studiosi provavano ad immaginare il futuro, i voli aerei per spostarsi come un’avventura esotica da raccontare.

Quel mondo lì, per quanto mi riguarda, si fermò il 27 luglio 1985. Il giorno dopo fu un giorno nuovo o un nuovo giorno (cit.) perché nella mia testa, nella testa di tantissimi, percepimmo con assoluta precisione che anche qui, anche a Locorotondo avremmo potuto tentare di costruire pezzi di futuro che prima immaginavamo soltanto.

La consapevolezza di poterci provare. Di questo dobbiamo ringraziare, oggi, 35 anni dopo, quei due ragazzi che a Natale del 1984 mentre tutto il mondo cantava il singolo di Band Aid si mettevano in macchina per andare a Napoli a firmare il contratto, un contratto da 65 milioni di lire (una Fiat Uno costava 12 milioni) che avrebbe portato Baglioni a suonare a Locorotondo.

Quando incontro Angelo Sisto e Tonio Bufano, i due ragazzi, ritrovo nei loro occhi tutto l’entusiasmo di quei giorni e cerco di farmi raccontare le sensazioni e le emozioni di quelle ore.

Abbiamo dovuto ridisegnare completamente lo stadio per poterottenere l’agibilità per 15.000 persone anche perché il tour di Baglioni crebbe data dopo data e quando arrivò a Locorotondo aveva acquisito una importanza enorme. Fu costruita una gradinata che dalla strada, da via Giulio Pastore, saliva per entrare nello stadio superando il muro di cinta: sarebbe stata l’uscita di sicurezza in caso di emergenza. Ma dovevamo anche evitare che da lì, incustodita, potessero entrare le persone senza pagare il biglietto e l’idea che ci venne, all’epoca stavo facendo il servizio militare, fu quella di invitare la Brigata Pinerolo: offrimmo loro 500 biglietti omaggio e li piazzammo sulle gradinate in maniera da ostruire il passaggio ad eventuali portoghesi. Quando arrivarono a Locorotondo nel pomeriggio, tutti stipati nelle camionette, molti pensavano stesse per scoppiare la guerra” sorride Tonio quando mi dice queste parole.

9.402 paganti ma nello stadio ce n’erano almeno 12.000 e altremigliaia all’esterno, lungo viale Olimpia, ad ascoltare. Il biglietto, con il diritto di prevendita al contrario rispetto a quello che accade oggi, cioè se lo acquistavi prima lo pagavi meno, costava 15.000 lire (e il disco di Baglioni lo si vendeva nei negozi a 13.500 lire, ndr). Ventisette ragazze, furono portate dall’ambulanza al pronto soccorso dell’ospedale di Locorotondo: tutte svenute per il gran caldo e perché erano davanti ai cancelli sin dalle 6 del mattino”. È Angelo a snocciolare le cifre e poi, come di solito gli accade quando parla di Locorotondo, si emoziona: “Sognavamo di portare Locorotondo sulla ribalta nazionale e decidemmo di cominciare questa avventura con il nome più importante che c’era in quel momento nel panorama della musica italiana. Immaginavamo così di far conoscere il nostro paese e il suo stupendo centro storico, confidavamo che da questa spinta si potesse attivare un meccanismo economico virtuoso che avrebbe potuto coinvolgere una grande fetta della popolazione”.

E oggi, gli chiedo, cosa resta oggi, 35 anni dopo, di quei sogni, di quell’entusiasmo misto all’incredulità di essere riusciti ad organizzare un evento così importante?

Il seme credo abbia dato dei buoni frutti perché è sotto gli occhi di tutti la trasformazione in positivo che ha avuto il nostro paese: l’ultimo Natale è stata la prova che abbiamo raggiunto un grande livello” dice Tonio.

Per Angelo il bicchiere è invece mezzo pieno: “io sono contento a metà. Ho sempre sognato un paese turistico con tanto movimento ma contemporaneamente ho sempre immaginato una serie di servizi che sarebbero dovuti crescere parallelamente: ci sarebbeancora così tanto da fare con un po’ di buona volontà”.

Una cosa che mi sono sempre chiesto è stata come Claudio Baglioni riuscì ad entrare nello stadio visto che era stato cinto d’assedio sin dalle prime luci dell’alba e che gli ingressi quelli erano: tutti molto visibili per tutti. E qui mi è venuto in soccorso l’avvocato Francesco Guida che quella sera si occupava della distribuzione delle bevande. Fu utilizzato il più classico degli stratagemmi. Si fece avvicinare all’ingresso auto di viale Olimpia un Ford Transit arancione tutto tappezzato di manifesti di Baglioni, lo stesso che Francesco aveva utilizzato, nelle settimaneprecedenti, come base logistica per le affissioni. Negli stessi istanti fu affidato il compito ad un paio di persone di cominciare a spargere la voce che in quel furgone, proprio quello, era nascosto Baglioni, sì là dentro, e fu così che in pochissimi secondi (altro che whatsapp!) tutti quelli che erano davanti allo stadio iniziarono a convergere in quel punto mentre il Claudio nazionale entrava tranquillamente, senza che nessuno se ne accorgesse, dall’ingresso degli spogliatoi in via Cisternino.

“La vita è adesso” viene pubblicato l’8 giugno 1985, ha venduto più di 4 Milioni di copie ed è l’album più venduto di sempre in Italia, è rimasto per 27 settimane consecutive primo in classificaed un anno e mezzo nella top ten.

“La vita è adesso… a Locorotondo!” Così erano tappezzati tutti i muri del paese in quella torrida estate di 35 anni fa. In quei giorni che ci fecero capire che potevamo essere re.

Pallastrada

Quando tre anni fa siamo stati chiusi in casa la testa ha preso ad inseguire i giorni in cui in casa non ci stavamo mai.
Perché continuamente per strada.
A giocare a calcio. O a qualcosa che gli assomigliasse: mischie furibonde in spazi che ci sembravano allora immensi, ora, ripassandoci, piccolissimi.
E così ho iniziato a catalogare alcuni luoghi dove giocavamo a pallone.

Era un altro sport.

Pallastrada, i campi del mio paese.


Denominazione campo: dietro al cinema
Caratteristiche:
Pendenza longitudinale: 5%
Pendenza trasversale: 3%
Elevata probabilità che il pallone fosse oggetto di taglio con accetta da parte di irreprensibile signore temuto da tutti e che abitava alla fine della discesa (ancora oggi ho paura a passarci)

Denominazione campo: da Peppazio
Caratteristiche:
Pendenza longitudinale: 3%
Possibili auto parcheggiate da dribblare o dietro cui nascondersi per eludere marcatura avversaria.
Porta ad est (contrassegnata con tre linee) confinante con quella che, in quegli anni ruggenti, era il giardino della caserma dei Carabinieri (la strada era cieca e non aperta su via Martina, come oggi). Questo comportava missioni suicide ogni qualvolta il pallone veniva sparato a minchia in quel giardino.

Denominazione: da Zichinetto
Caratteristiche:
Terreno di gioco in pietra locale (chianca) di ampiezza 9 metri per 5 con densità di giocatori pari al lungomare nella sera dei fuochi di San Rocco.
Presenza laterale di una bottega di calzolaio dal cui soprannome discende il nome del campo e di una parrucchiera (Franca) le cui ante in vetro più volte furono frantumate.
Presenza di balcone con fili per panni su cui andava sistematicamente ad impigliarsi la sfera, cosa che sottoponeva i giocatori a trovare il più lungo tra tutti al fine di issarlo alla stregua di un pennacchio per cercare di riprendersi il pallone.

Denominazione: da Anna della cantina
Caratteristiche:
Lingua di chianche di metri 10 x 3 senza via d’uscita: in pratica un padel prima ancora del padel.
Trerruote di Donato (marito di Anna, vedi sotto) perennemente parcheggiato nel campo e dal cui cassone si battevano i falli laterali che qualcuno, estemporaneamente e con grande genio visto che la palla non poteva mai uscire, chiamava tanto per darsi un tono.
La porta ovest (tre linee) coincideva con la porta est del campo di Zichinetto e quindi, in caso di contemporaneità di partite, si potevano osservare giocatori che cambiavano campo, palloni che si inserivano non si capisce da dove, Franca la parrucchiera che usciva urlando poiché il suo negozio
era proprio lì, sulla striscia di Gaza, dove un campo si fondeva nell’altro.
Accanto alla porta est l’ingresso della cantina di Anna (in giallo), luogo ameno dove ci stipavamo in 25 (grazie a Franco, suo figlio) la domenica alle 18.20 per guardare Paolo Valenti e 90° minuto.
È stato il mio campo di pallastrada preferito.

Denominazione: da Attilio
Caratteristiche:
Campo con doppia via di fuga (in giallo) su uno dei due lati di ciascuna porta: in questo modo si potevano battere fantasiosi calci d’angolo.
Presenza laterale del negozio di elettrodomestici di Lino Campanella (in celeste): qui si andavano ad ascoltare i dischi nel post partita.
Una delle due porte (in verde) coincideva esattamente con l’ingresso dell’edicola di Attilio motivo per cui andavano dribblati anche i clienti in entrata/uscita. Ma soprattutto e su tutto si ergeva, metafisica, la presenza della moglie di Attilio: seduta lateralmente alla porta d’ingresso dell’edicola, proprio sotto Cronaca Vera, su uno sgabello reso invisibile dalla sua monumentale stazza. Fu oggetto di molte spallommate: termine tecnico che indica un tiro di inaudita violenza scoccato da distanza ragguardevole.

Denominazione: alla Rutedda
Caratteristiche:
Nome dal taglio esterofilo. Alla Rutedda era per me qualcosa di simile al francese à la mode. Inoltre, per
semplice assonanza, mi faceva tanto lo stadio dell’Aston Villa visto una notte di mercoledì in un secondo tempo di una partita di Coppa dei Campioni.
Terreno da gioco rettangolare 15 meri per 7, in cementine, senza pendenza alcuna, ottima illuminazione notturna. Per tutto questo alla Rutedda non si andava a giocare come veniva, buttando le squadre a tocco chi c’era c’era. Alla Rutedda si andava previo appuntamento, con le squadre bell’e formate e cricca di sostenitori al seguito che si piazzavano nella parte alta della piazza accanto alla fontana da cui partivano, nelle sere estive, rinfrescanti gavettoni.
Notevoli le risse che si svolgevano: famosa quella in cui un amico, per vendicarsi d’essere stato deriso dagli avversari per l’intero incontro a causa della sua bassa statura, sferrò un calcio potentissimo, armato di sola Pescura Dr Scholl’s, alla tibia di un avversario fratturandosi, lui, l’alluce e passando l’intera estate
con gesso alto fino al ginocchio.
Unico neo: la quota del terreno di gioco sovrastava di un metro e mezzo quella del marciapiede che gli correva lateralmente (in verde) ragione per cui diverse spallommate  potevano cogliere (e coglievano!) in pieno volto incolpevoli passanti.

Denominazione: Largo Fiera
Caratteristiche:
Pendenza trasversale 5%
Pendenza longitudinale 2%
Illuminazione perfetta su lato strada e nulla su quello opposto.
Contornato da alberi di cui nessuno sapeva nome, avvizziti dalla notte dei tempi ma utilissimi per segnare le porte e le linee laterali.
Terreno di gioco composto da un materiale che non si capiva cosa fosse.
Non era asfalto, non era cemento.
Sembravano piccole pietre appuntite messe assieme con il vinavil.
Durissimo e rugoso.
Se ci cadevi era antitetanica sicura. Di sera brillava luccicoso, bellissimo e romantico, a causa di infiniti frammenti di vetro che erano il risultato di bottiglie frantumate durante lo svolgimento del mercato settimanale del venerdì.
Era per noi San Siro.
Ed anche l’estrema periferia. Accanto ci sorgeva (e c’è ancora) la scuola media.
Quella cosa di Venditti, della canzone che fa “davanti alla scuola, tanta gente, Otto e venti prima campana” per me è Aldo, il mio compagno di scuola col piede più educato che io abbia mai visto su quel campo, che calcia una punizione (alla Platini avremmo detto l’anno dopo), segna, mi fa l’occhiolino, piglia i due libri fasciati nella cinghia e viene verso di me.

Denominazione: giù al palo
Caratteristiche:
Campo di forma quadrata con terreno da gioco in asfalto e palo altissimo della pubblica illuminazione
piazzato al centro (in giallo).
Da qui un pezzo del suo nome a cui si aggiungeva l’avverbio “giù” quando a pronunciarlo erano giocatori che solitamente accarezzavano il pallone nel centro storico: questi ultimi erano quelli di adàlt.
Ci si andava in gruppo e io mi sentivo come Nemecsek che seguiva il suo Boka.
Non ci ho giocato molto. E se andavo mi ci portava Aldo che faceva il giro dei campi da mattina a sera perché era bravo e lo facevano giocare tutti.
Per me era abbastanza diversa la cosa: non dico che dovevo portarmi il pallone ma più o meno stavamo in quella zona li.

Esercizio 4 – La casa in cui sono nato e cresciuto

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Durante il lockdown, il primo, mi sono iscritto ad un corso di scrittura. Ascoltare storie è una delle cose che più mi piace fare.

Tirarne fuori qualcuna ho pensato, presuntuosissimo, mi avrebbe dato una mano a costruire un’idea di senso su quello che mi correva attorno.

Adesso che sto inscatolando foto, libri, fogli di giornale nella vecchia casa dei miei è chiaro che con quei racconti mi stavo semplicemente allenando nel farmi trovare pronto.

Questo è l’esercizio n. 4


La porta d’ingresso marrone, due serrature, grande sopra e piccola sotto, è la stessa di tanti condomini italiani dei secondi ’60 quando il futuro esplose appena un attimo prima che arrivassero a farlo le bombe.

La raggiungo uscito dall’ascensore con la cassetta dove infilare le 10 lire, la targa “Portata max 160 Kg”, la tappezzeria strappata, incisa di cuori, svastiche e t’amomarianna.

Entro, sono nel soggiorno, a destra l’attaccapanni accanto ad una piccola credenza con le nostre vecchie foto alternate a bomboniere di coppie dimenticate. Di fronte, una madia rustica con il centrino ad uncinetto ricopre l’anta a cerniera.

Nel corridoio. Lunghissimo.

Con una graniglia di frammenti irregolari di marmo come tappeto ed un battiscopa grigio che gli corre sui fianchi spezzandosi solo all’affacciarsi delle stanze.

A sinistra il salotto con un paio di divani, il tavolino basso esagonale con le riviste, la scrivania con la vecchia macchina da scrivere, foglia bianchi e carta carbone, la tivù, il carrello con i liquori pronti da servire, il lampadario che starebbe bene nell’astronave di Star Trek e una libreria di legno laccato bianco, gigante, che rimbalza i raggi di sole che arrivano dalla finestra aperta sui quadri appesi alle pareti.

Dall’altra parte, a fare da contrappeso, la cucina con la luce giallognola amara delle 5 di pomeriggio di tutte le nostre vite: le stoviglie in ordine, la radio accesa sul frigo che passa una canzone della Bertè, il profumo di vaniglia dei biscotti, la chiavetta del gas chiusa.

Più avanti c’è la sala da pranzo con il tavolo al centro mentre un vaso con gerbere arancioni, il punto più luminoso, richiama i toni della tenda che copre la porta finestra d’accesso al balcone. Una credenza noiosa mette in mostra il servizio di posate buono della festa, i piatti con il bordo in oro zecchino mai usati e i bicchieri in cristallo Baccarat.

Un paio di passi ancora e sono davanti alla porta del bagno: le piastrelle celesti, lo specchio con la mensola di vetro sbeccata appiccicata alla parete, 4 spazzolini ed un dentifricio nel bicchiere sul lavandino, la vasca da bagno smaltata bianca, il borotalco sul bordo.

A chiudere la pianta, infine, le due stanze da letto.

Nella prima domina un matrimoniale, il materasso alto e duro, i comodini con le due Eclissi, la cassettiera con lo specchio e l’armadio che tappezza un intero lato: tutto in tinta. Su una parete, tra due orrendi ritratti en plein air, un piccolo calco in bronzo acquistato, dicono, in un lontano viaggio a Parigi.

Affianco ma con una foratella da 8 più un paio di centimetri di intonaco a separare sogni, sonni, umori ed amori due letti sfranti, una scrivania. Due sedie si intravedono a malapena tra jeans e magliette alla rinfusa, poi uno stereo, una pallina gialla da tennis sopra una mensola che sembra essere lì più come traversa di una immaginaria porta da calcio che per reggere dischi, libri e cassette.

Attaccate con lo scotch trasparente sull’armadio verde acqua come i muri, tante fotografie. E due poster: Patsy Kensit e Platini.

Lei ha una spallina sul punto di cadere, lui è sdraiato sul fianco, un gomito sul prato e la mano sulla guancia a tenergli la testa sollevata. Ha gli occhi che luccicano mentre guarda qualcosa. Non sembra molto lontana, sorride.

Lucine

Lo scorso fine settimana il borgo antico di Locorotondo è stato visitato da migliaia di persone (10.000 tra sabato e domenica) giunte ad ammirarne strade, vicoli e palazzi illuminati a giorno per il Natale.

Da una decina di giorni, infatti, sono stati inaugurati alcuni percorsi luminosi in virtù di, ho appreso leggendo un comunicato stampa sull’ultimo numero di Paese Vivrai, “un progetto che ha visto per la prima volta un coordinamento dal punto di vista estetico, artistico ed organizzativo tra residenti, attività commerciali e privati”.

Con la premessa che chiunque si adoperi per il proprio paese mettendo a disposizione tempo ed energie sottraendoli ad affetti e lavoro compie un servizio alla comunità a cui ciascuno deve rendere omaggio, è doveroso cercare di comprendere il fenomeno, capirne le dinamiche, leggerlo per trarne, tutti, qualche lezione.

Ritengo non si possa riprendere dal 2019, primo anno del boom degli addobbi natalizi a Locorotondo, come se nulla fosse accaduto.

Non solo perché qualcosa è accaduto ma, addirittura, perché quella cosa sta ancora accadendo.

E continuerà ad accadere.

Siamo nel pieno della quarta ondata che sta causando una nuova crescita di casi e un aumento dei ricoveri in terapia intensiva in molti paesi europei tra cui l’Italia.

Ma quella di oggi non è più l’epidemia dello scorso anno. Sono cambiate un mucchio di cose: ci sono i vaccini, che offrono una protezione contro le forme gravi della COVID-19, ci sono varianti più contagiose, ci sono meno restrizioni.

Con quello che solo un paio di anni fa guardavamo nei film di fantascienza e che ci sembrava appartenere ad un mondo che non poteva essere il nostro ci toccherà convivere per diverso tempo.

Lo faremo, ci adatteremo: meglio, sono due anni che ci stiamo adattando.

Allo stesso tempo mi sembra che, lentamente, abbiamo rimosso le cause che ci hanno portato qui: c’entrano la distruzione delle foreste e il nostro rapporto spesso aggressivo nei confronti della natura. Spillover, zoonosi, salto delle specie, concetti che ci sono stati familiari meno di due anni fa sono stati accantonati per fare spazio a nuovi. Giallo, arancio e rosso. Green pass. Super green pass.

Ma il problema è sempre lì, ammucchiato sotto al tappeto. Intatto.

A ricordarcelo sono i nostri ragazzi, quelli che scendono in piazza e hanno costretto a mettere al primo punto delle agende politiche di tutto il mondo le questioni legate alla sostenibilità ambientale, alla transizione ecologica ed alla crisi climatica.

Ed è in questo quadro che dobbiamo inserirci.

In questo contesto politico, sociale, economico e culturale dobbiamo agire.

E allora, stringo, organizzare un evento come quello delle luminarie a Natale è sostenibile, qui ed ora avremmo detto tempo fa, ambientalmente?

Ha senso firmare appelli, contestare i grandi del mondo per il loro agire politico e poi noi, nel nostro piccolo, fare l’esatto opposto di quello che urliamo? Possiamo chiedere agli altri di consumare meno risorse se ci comportiamo in maniera opposta? È coerente questo atteggiamento?

E ancora: questo evento è sostenibile urbanisticamente?

Non è un mero problema di parcheggi che pure è un tema.

Quello che mi chiedo è se hanno un senso 6.500 persone (dato di domenica 21 novembre) che nello spazio di poche ore attraversano un contesto urbano, il centro storico di Locorotondo, che ne ospita meno di mille. Per fare un esempio è come se a casa vostra vi dicessero: siete in 4? Bene, domani dalle 5 alle 10 di sera, sarete in 28. Vedete voi come dovete fare per condividere bagni, cucina, stanze e Netflix.

E infine, ma è la domanda delle domande: qual è la strategia sottesa a tutto?

Ho cinquantuno anni e da quando indossavo i calzoni alla zuava e le occhio di bue ascolto e leggo che “dobbiamo puntare al turismo di qualità” ma mai uno che abbia provato a spiegare cosa sia il turismo di qualità. Meglio. Cosa concorra a determinare un turismo di qualità.

Perché siamo tutti contrari a parole al mordi e fuggi, non ci piacciono le masse oceaniche che arrivano, si fanno la foto nel vicolo, sporcano e scappano, ma non riusciamo a sederci per disegnare una strategia che rivolga i propri occhi ad altri pubblici, nicchie, meno numerose ma con capacità di spesa maggiore, costruire tasselli e servizi che diventino terreno su cui far fiorire iniziative ed idee private all’interno di un quadro di rifermento condiviso.

E queste cose non si improvvisano: hanno bisogno di competenze, varie, costano fatica, tanta, tempo e pazienza e cura infinita.

Tutte risorse che non vanno molto di moda nel Natale locorotondese più instagrammabile di sempre.

Riaprire, un post

Vado contromano.
Credo che sia giusto per bar e ristoranti attendere per la riapertura.
Perché queste attività non vendono solo cibo: questo lo si può fare in take away, oltre che in delivery, da lunedì.
Queste attività sono un pezzo della socialità e convivialità.
E ritengo che sia il bene più prezioso da presidiare e non bruciare: in questi due mesi abbiamo imparato a sfangarla in cucina ma ci mancano gli amici al tavolino a ridere e scherzare (almeno a me).
Aprire adesso, subito, temo possa bruciare questo capitale.
Perché se non abbiamo, oltre a procedure e protocolli interni alle aziende da rispettare, anche un modello di protezione generale che dia supporto, sostanza e sicurezza a tutti e mi riferisco ai sistemi di tracciamento, ai test sierologici, alla mappatura epidemiologica, ad una messa a punto dei sistemi sanitari a livello territoriale allora possiamo aprire quando vogliamo ma credo che saranno in pochi a volersi sedere senza guardarsi alle spalle (no, il plexiglas no).
Quello che è indispensabile è non perdere un minuto di tempo in più per l’iniezione di liquidità. Questo è il ritardo che ci ammazza e che al contrario ci permetterebbe anche di stare chiusi qualche settimana in più aspettando che tutte quelle cose che ho scritto prima si mettano in fila: il dibattito su queste misure va avanti ormai da due mesi e va messo un punto.
Questi soldi che arrivano sono prestiti da restituire, certo. Nessuno si illude e vuole che gli venga regalato qualcosa.
Ma abbiamo bisogno di fiducia e le istituzioni devono essere in grado di metterla in campo.
Basterebbe avere tempestività e allineamento tra conferenze stampe e successiva implementazione delle procedure.
Basterebbe la serietà.

Prenderli sul serio

Alla fine vorrei provare a prenderli sul serio e immaginare quello che potrebbe accadere subito dopo il voto, la notte dello spoglio.

Con la premessa indispensabile che i sondaggi, gli ultimi sondaggi, ci prendano.

E che quindi diano come risultato un Parlamento senza alcuna maggioranza politica ma con un partito, il Movimento 5 Stelle, abbondantemente primo.

A questo punto, a prenderli sul serio, l’onorevole Di Maio ha più volte ribadito che la sera delle elezioni farà “un appello pubblico alle altre forze politiche che sono entrate in Parlamento presentando il nostro programma e la nostra squadra. E governeremo con chi ci sta”.

In quel preciso istante, nel momento esatto in cui pronuncerà quelle parole, si andrà a creare un conflitto istituzionale per cui il partito di maggioranza relativa si affida il compito di comporre una maggioranza parlamentare esautorando il Presidente della Repubblica dal compito che la Costituzione gli assegna.

Il Presidente della Repubblica, primo garante della Costituzione, a questo punto avrà due strade. Ratificare (sic!) l’incarico all’onorevole Di Maio oppure indire le consultazioni con i vari gruppi parlamentari e solo successivamente, sulla base dei riscontri ottenuti, affidare l’incarico per la costruzione di un nuovo governo: in questo caso l’esponente apparterrà ad un partito o movimento politico differente dai 5 Stelle o, al limite a nessun partito.

Scegliendo la prima strada il Presidente della Repubblica abdicherà nei fatti al suo ruolo: le conseguenze tiratele voi.

Percorrendo la seconda di strada il Movimento 5 Stelle indosserà il suo vestito preferito, quella di vittima del sistema, dei complotti e della casta. I giornali della borghesia illuminata gli continueranno, per timore di perdere le loro riconquistate rendite di posizione, a lisciare il pelo insistendo a non vedere il tratto eversivo connaturato al loro agire politico. La gente sarà chiamata a scendere in piazza. Gli animi si riscalderanno.

Questo a prenderli sul serio.

Continuando invece a dipingerli e descriverli come un pezzo della grande commedia popolare del nostro Paese andrà a finire molto peggio.

Riflusso 2.0

Premessa 1

Questo è un blog, più o meno attivo, da 15 anni. Ha vissuto almeno un paio di vite su altre piattaforme e avuto periodi più o meno lunghi di letargo. I suoi post, alla fine, non sono altro che i puntini che uniscono la linea di un pezzo non piccolo della mia vita. Ne sono affezionato. In fondo è la mia coperta di Linus. È la mia stanzetta con la porta socchiusa da cui, chi vuole, con educazione e rispetto, può sbirciare.

Premessa 2

Non scrivo, qui, da quasi un anno. Forse non ne avevo l’urgenza. Forse non ne avevo il tempo. O la voglia.

O più semplicemente avevo bisogno di tempo per mettere un po’ di ordine tra una serie di appunti che andavo seminando un po’ ovunque nella mia testa. C’era la necessità di aspettare che il vento calasse, il mare si calmasse e la sabbia scendesse sul fondo per poter vedere in trasparenza quella corrente che ci va avvolgendo.

Scusa se non parlo abbastanza ma ho una scuola di danza nello stomaco (Coez)

È venuto fuori qualche giorno fa. Prima una cena con alcuni vecchi amici. Poi Gianna che dice di vedermi “aspè devo trovare le parole giuste, non è disilluso, neanche allineato o sottomesso, forse troppo silenzioso, quasi dimesso; il fatto è che non t’incazzi più per quello che non va, adesso lo fai solo quando gioca la Juve in champions”. Ci ho pensato. Ha ragione (soprattutto sulla Juve in champions). E come sempre è accaduto nelle nostre vite è stata lei, chesaràmai, a farmi capire dov’ero e come ci sono arrivato da quelle parti.

E allora quegli appunti sparsi nel cervello hanno iniziato a prendere una forma, ad incastrarsi l’uno con l’altro, a creare un ordine ed un ragionamento.

Ho capito così di aver deciso, inconsciamente ieri razionalmente oggi, di non voler prendere parte ad un dibattito pubblico che non mi piace.

Non mi piace per i toni.

Non mi piace perché si gioca su un terreno dove vince la rabbia.

Non mi piace perché la competenza e l’esperienza sono un disvalore.

Non mi piace perché potrei sommare all’arroganza di esprimere una qualsiasi opinione sulla riforma del sistema bancario, di cui non capisco assolutamente nulla, la presunzione che quelle mie parole debbano essere pesate almeno quanto quelle del Governatore della Banca Centrale Europea.

Non mi piace perché i più violenti sono quelli della mia generazione: cresciuti con il telefono a disco in casa e che il cellulare fa sentire onniscienti.

Non mi piace perché lì dove potevamo costruire un campo da gioco dove ritrovarsi padri e figli, nonni e nipoti ci siamo disegnati una bolla e uno specchio, una stanza dove risuona solo la voce nostra e di quelli che la pensano esattamente come noi.

Non mi piace perché i nostri figli e nipoti ci schifano assai: a noi e alle nostre piazze che frequentiamo vestiti con la sciarpa da hooligan. Hanno altre spiagge dove piantare ombrelloni e stendere teli, popolano lidi verso i quali da maestri saccenti puntiamo il ditino dimenticandoci che oggi quelli con l’anello al naso siamo noi.

E allora “scusa se non parlo abbastanza” diventa l’unica strategia possibile.

Come pensare che Ian Solo oggi sostituirebbe la forza con la resilienza.

Come ritenere la libertà di non dover esprimere un parere su qualsiasi cosa accada nell’universo una delle conquiste più importanti dell’uomo dalla scoperta del fuoco.

Come credere che il rifiutarsi di giocare su un terreno impraticabile sia l’unico modo per non farsi del male.

Come concentrarsi sulle piccole cose, fare bene il proprio lavoro, tenersi stretti affetti, libri, dischi, film e serie tv (ad averci il tempo per vederle), costruirsi un’arca.

Mettere in fila i sacchetti di sabbia prima dell’arrivo della piena.

Aspettare che passi.

Perché passerà.

Primismo

Prima gli abitanti del pianeta Terra.

Prima prima però gli italiani.

Ma prima prima prima i pugliesi.

E prima prima prima prima i locorotondesi.

Benché prima prima prima prima prima debbano venire i locorotondesi del centro storico.

E soprattutto prima prima prima prima prima prima i locorotondesi del centro storico che risiedono in via Morelli 34.

Sanremo per me

Mi piace Sanremo.

Non è sempre stato così. Sono stato un giovane contestatore anch’io e l’orchestra con il chitarrista che faceva gli assoli seduto sulla sedia come fosse ad una cena di gala non riuscivo proprio a capirlo.

Ma poi il tempo ti attraversa e molte delle canzoni che passavano da quelle parti hanno acquistato un senso diverso. Non è (solo) nostalgia. Ma capire, con colpevole ritardo, che lì dentro c’era un racconto di quegli anni, certamente non scritto solo per me (e io a sedici anni volevo che la musica fosse solo e tutta mia), sulle cui note io ho passeggiato anche non volendo.

Qui di seguito le mie 10 preferite di sempre raccolte tra quelle che ho ascoltato da quando ho memoria del Festival.

Anna Oxa, Un’emozione da poco (1978)

Il rapimento di Moro e la strage della sua scorta.

L’uscita da scuola, anticipata.

Il ritorno a casa e tutto il condominio per le scale a parlarsi fitto fitto.

E da una radio accesa in una cucina veniva fuori questa canzone.

Luca Barbarossa, Via Margutta (1986)

Subito dopo questa canzone iniziai a presentarmi alle feste con una giacca a quadretti verde acqua, terribile, sopra ad un paio di jeans scoloriti con il sovrappiù di sentirmi fighissimo.

Rudi Marra, Gaetano (1991)

Il periodo delle basette, delle feste, delle immense compagnie, degli amici, di tutti gli amici:.

Soprattutto quelli che non ci sono più.

Gerardina Trovato, Ma non ho più la mia città (1993)

Momento “pigliamo, cambiamo tutto e facciamo la rivoluzione”: 22 anni e non avevo più la mia città.

Carmen Consoli, Amore di plastica (1996)

Questa vince”, guardando negli occhi i miei coinquilini con i quali dividevo l’appartamento. Fu eliminata la prima sera.

Niccolò Fabi, Lasciarsi un giorno a Roma (1998)

La canzone da far ascoltare a chi ti dice che a Sanremo vanno solo canzoni scritte male.

Subsonica, Tutti i miei sbagli (2000)

I tre microfoni attaccati con il nastro adesivo

Deasonika, Non dimentico più (2006)

Una delle canzoni che passavano alla radio quella notte che mi aprì gli occhi

Malika Ayane, Come Foglie (2009)

E comunque il verso “è un inverno che va via da noi e allora come spieghi questa maledetta nostalgia” vale un sacco.

Tiziana Rivale, Sarà quel che sarà (1983)

Una domenica mattina, io vestito per andare in chiesa e mia madre in cucina che ascolta al Giornale Radio la canzone di chi ha vinto Sanremo perché “non ce l’ho fatta ad arrivare alla fine”.

Il nostro meglio del 2016

Il classico post con il nostro meglio di canzoni e libri dell’anno che sta per finire e che possono essere anche un utile consiglio last minute per i regali di Natale.

Grazie agli amici che lo hanno voluto scrivere con me: in corsivo qualche loro commento.

 

Tiziana

Canzoni

You want it darker – Leonard Cohen

Seed justice – Neil Young

Lazarus – David Bowie (anche un po’ come tributo)

Libri

Kobane Calling (e tutti gli altri album che ha fatto) – Zerocalcare

La paranza dei bambini – Roberto Saviano

Gli aspetti irrilevanti – Paolo Sorrentino (a dire il vero non l’ho ancora letto ma Sorrentino come scrittore lo amo)

Stoner – John E. Williams (che però non è del 2016 ma essendo il romanzo per eccellenza, cioè il prototipo del romanzo perfetto secondo me, vale per ogni anno)

 

Mauro

Canzoni

Go – The Chemical Brothers

Dipende da te – Perturbazione

Cohiba – Daniele Silvestri (ma non perché è morto Fidel Castro)

Libri

Io uccido – Giorgio Faletti

Fuori da un evidente destino – Giorgio Faletti

La ferocia – Nicola Lagioia (ma è in progress)

 

Franco

Canzoni

London thunder – Foals

Le voci – Cosmo

No sleep til cleveland – Prophets of Rage

Libri

Le solite sospette – John Niven

La verità, vi spiego, sull’amore – Enrica Tesio

Stronzate che capitano quando non muori giovane – Jerry Stahl

 

Ninni

Canzoni

Silence Is the Way – Miles Davis & Robert Glasper feat. Laura Mvula

Am I Wrong –  Anderson.Paak

A Mineral Love – Bibio

Libri

Miles on Mavis. Incontri con Miler Davis – Paul Maher Jr. e Michael K. Dorr

Otis Redding. La musica è viva – Alberto Castelli

Storia del rock in dieci canzoni – Marcus Greil e S. Reggiani

 

Francesco

Canzoni.

Qui è sempre dura scegliere.

Ti elenco quattro pezzi che raccontano e che hanno accompagnato, dall’inizio alla fine, (in quest’ordine) il mio 2016. Nel bene e nel male.

Persone, posti, emozioni, abbracci, sorrisi baci e lacrime. E’ tutto qui.

Everything Trying – Damien Jurado

Eva – Giovanni Truppi

Tu no (Bobo canta Ciampi) – Bobo Rondelli

Era solo ieri – Diego Mancino

Libri

Cinque indagini romane per Rocco Schiavone – Antonio Manzini

Il teatro è un’assemblea che ha al centro l’uomo – Toni Servillo

L’arte di correre – Murakami Haruki

 

Valerio

Canzoni

Revolution radio – Green Day

Tra di noi – Tiromancino

Lontano da tutto – Niccolò Fabi

Libri

Il coraggio di essere liberi – Vito Mancuso

Le otto montagne – Paolo Cognetti

L’altro capo del filo – Andrea Camilleri

 

Martino

Canzoni

Tra la strada e le stelle – Thegiornalisti

Le barche – Calcutta

Sunset on M. – Dardust

Libri

Il desiderio di essere come tutti -Francesco Piccolo

Esche vive – Fabio Genovesi

 

Pepecchio

Canzoni

Completamente – Thegiornalisti

Can’t stop the feeling – Justin Timberlake (canzone dell’anno per la pupattola)

Regata 70 – Cosmo

Man Down – Inude

Libri

Quello che più mi ha fatto sorridere: L’amore è eterno finché non risponde – Ester Viola

Quello che più mi ha fatto pensare: Novantatrè. L’anno del terrore di Mani Pulite – Mattia Feltri

Quello che più mi ha tirato dentro: 7-7-2007 – Antonio Manzini

Quello più bello di tutti: Le otto montagne – Paolo Cognetti