Esercizio 4 – La casa in cui sono nato e cresciuto

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Durante il lockdown, il primo, mi sono iscritto ad un corso di scrittura. Ascoltare storie è una delle cose che più mi piace fare.

Tirarne fuori qualcuna ho pensato, presuntuosissimo, mi avrebbe dato una mano a costruire un’idea di senso su quello che mi correva attorno.

Adesso che sto inscatolando foto, libri, fogli di giornale nella vecchia casa dei miei è chiaro che con quei racconti mi stavo semplicemente allenando nel farmi trovare pronto.

Questo è l’esercizio n. 4


La porta d’ingresso marrone, due serrature, grande sopra e piccola sotto, è la stessa di tanti condomini italiani dei secondi ’60 quando il futuro esplose appena un attimo prima che arrivassero a farlo le bombe.

La raggiungo uscito dall’ascensore con la cassetta dove infilare le 10 lire, la targa “Portata max 160 Kg”, la tappezzeria strappata, incisa di cuori, svastiche e t’amomarianna.

Entro, sono nel soggiorno, a destra l’attaccapanni accanto ad una piccola credenza con le nostre vecchie foto alternate a bomboniere di coppie dimenticate. Di fronte, una madia rustica con il centrino ad uncinetto ricopre l’anta a cerniera.

Nel corridoio. Lunghissimo.

Con una graniglia di frammenti irregolari di marmo come tappeto ed un battiscopa grigio che gli corre sui fianchi spezzandosi solo all’affacciarsi delle stanze.

A sinistra il salotto con un paio di divani, il tavolino basso esagonale con le riviste, la scrivania con la vecchia macchina da scrivere, foglia bianchi e carta carbone, la tivù, il carrello con i liquori pronti da servire, il lampadario che starebbe bene nell’astronave di Star Trek e una libreria di legno laccato bianco, gigante, che rimbalza i raggi di sole che arrivano dalla finestra aperta sui quadri appesi alle pareti.

Dall’altra parte, a fare da contrappeso, la cucina con la luce giallognola amara delle 5 di pomeriggio di tutte le nostre vite: le stoviglie in ordine, la radio accesa sul frigo che passa una canzone della Bertè, il profumo di vaniglia dei biscotti, la chiavetta del gas chiusa.

Più avanti c’è la sala da pranzo con il tavolo al centro mentre un vaso con gerbere arancioni, il punto più luminoso, richiama i toni della tenda che copre la porta finestra d’accesso al balcone. Una credenza noiosa mette in mostra il servizio di posate buono della festa, i piatti con il bordo in oro zecchino mai usati e i bicchieri in cristallo Baccarat.

Un paio di passi ancora e sono davanti alla porta del bagno: le piastrelle celesti, lo specchio con la mensola di vetro sbeccata appiccicata alla parete, 4 spazzolini ed un dentifricio nel bicchiere sul lavandino, la vasca da bagno smaltata bianca, il borotalco sul bordo.

A chiudere la pianta, infine, le due stanze da letto.

Nella prima domina un matrimoniale, il materasso alto e duro, i comodini con le due Eclissi, la cassettiera con lo specchio e l’armadio che tappezza un intero lato: tutto in tinta. Su una parete, tra due orrendi ritratti en plein air, un piccolo calco in bronzo acquistato, dicono, in un lontano viaggio a Parigi.

Affianco ma con una foratella da 8 più un paio di centimetri di intonaco a separare sogni, sonni, umori ed amori due letti sfranti, una scrivania. Due sedie si intravedono a malapena tra jeans e magliette alla rinfusa, poi uno stereo, una pallina gialla da tennis sopra una mensola che sembra essere lì più come traversa di una immaginaria porta da calcio che per reggere dischi, libri e cassette.

Attaccate con lo scotch trasparente sull’armadio verde acqua come i muri, tante fotografie. E due poster: Patsy Kensit e Platini.

Lei ha una spallina sul punto di cadere, lui è sdraiato sul fianco, un gomito sul prato e la mano sulla guancia a tenergli la testa sollevata. Ha gli occhi che luccicano mentre guarda qualcosa. Non sembra molto lontana, sorride.

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