La vita è adesso… a Locorotondo

Era un luglio da canicola, da restare con le cosce appiccicate sui sedili in pelle marron del pullman della Sud Est: alle 8 del mattino, dai finestrini spalancati, entrava solo aria calda.

Avevamo 15 anni e l’autobus era la cosa più bella per andare al mare: come una gita scolastica che si ripeteva ogni mattina. Amicizie che si creavano e sfaldavano, amori che nascevano e morivano: ogni cosa avveniva con la stessa velocità con cui ingurgitavi un croccante Algida all’amarena. Era tutto veloce ma ci sembrava infinito e per sempre.

Quel giorno però fu diverso perché scendendo a mare (al mare, da qui, non si va, perché non è un viaggio, ma si scende, come fosse un pezzo di casa che abbiamo preferito lasciare lì per comodità)trovammo la strada completamente tappezzata di manifesti. Le ragazze iniziarono ad urlare così forte che fummo costretti a mettere da parte la Gazzetta dello Sport che parlava di Paolo Rossi che dalla Juve andava Milan per capire che stava succedendo quello che nessuno pensava sarebbe potuto accadere.

Adesso tutti voi che leggete queste righe, anche chi non c’era in quegli anni lì, deve provare a fare un piccolo esercizio: chiudere gli occhi ed immaginare un mondo dove il telefono era quello fisso o a gettoni, internet un semplice protocollo su cui pochissimi studiosi provavano ad immaginare il futuro, i voli aerei per spostarsi come un’avventura esotica da raccontare.

Quel mondo lì, per quanto mi riguarda, si fermò il 27 luglio 1985. Il giorno dopo fu un giorno nuovo o un nuovo giorno (cit.) perché nella mia testa, nella testa di tantissimi, percepimmo con assoluta precisione che anche qui, anche a Locorotondo avremmo potuto tentare di costruire pezzi di futuro che prima immaginavamo soltanto.

La consapevolezza di poterci provare. Di questo dobbiamo ringraziare, oggi, 35 anni dopo, quei due ragazzi che a Natale del 1984 mentre tutto il mondo cantava il singolo di Band Aid si mettevano in macchina per andare a Napoli a firmare il contratto, un contratto da 65 milioni di lire (una Fiat Uno costava 12 milioni) che avrebbe portato Baglioni a suonare a Locorotondo.

Quando incontro Angelo Sisto e Tonio Bufano, i due ragazzi, ritrovo nei loro occhi tutto l’entusiasmo di quei giorni e cerco di farmi raccontare le sensazioni e le emozioni di quelle ore.

Abbiamo dovuto ridisegnare completamente lo stadio per poterottenere l’agibilità per 15.000 persone anche perché il tour di Baglioni crebbe data dopo data e quando arrivò a Locorotondo aveva acquisito una importanza enorme. Fu costruita una gradinata che dalla strada, da via Giulio Pastore, saliva per entrare nello stadio superando il muro di cinta: sarebbe stata l’uscita di sicurezza in caso di emergenza. Ma dovevamo anche evitare che da lì, incustodita, potessero entrare le persone senza pagare il biglietto e l’idea che ci venne, all’epoca stavo facendo il servizio militare, fu quella di invitare la Brigata Pinerolo: offrimmo loro 500 biglietti omaggio e li piazzammo sulle gradinate in maniera da ostruire il passaggio ad eventuali portoghesi. Quando arrivarono a Locorotondo nel pomeriggio, tutti stipati nelle camionette, molti pensavano stesse per scoppiare la guerra” sorride Tonio quando mi dice queste parole.

9.402 paganti ma nello stadio ce n’erano almeno 12.000 e altremigliaia all’esterno, lungo viale Olimpia, ad ascoltare. Il biglietto, con il diritto di prevendita al contrario rispetto a quello che accade oggi, cioè se lo acquistavi prima lo pagavi meno, costava 15.000 lire (e il disco di Baglioni lo si vendeva nei negozi a 13.500 lire, ndr). Ventisette ragazze, furono portate dall’ambulanza al pronto soccorso dell’ospedale di Locorotondo: tutte svenute per il gran caldo e perché erano davanti ai cancelli sin dalle 6 del mattino”. È Angelo a snocciolare le cifre e poi, come di solito gli accade quando parla di Locorotondo, si emoziona: “Sognavamo di portare Locorotondo sulla ribalta nazionale e decidemmo di cominciare questa avventura con il nome più importante che c’era in quel momento nel panorama della musica italiana. Immaginavamo così di far conoscere il nostro paese e il suo stupendo centro storico, confidavamo che da questa spinta si potesse attivare un meccanismo economico virtuoso che avrebbe potuto coinvolgere una grande fetta della popolazione”.

E oggi, gli chiedo, cosa resta oggi, 35 anni dopo, di quei sogni, di quell’entusiasmo misto all’incredulità di essere riusciti ad organizzare un evento così importante?

Il seme credo abbia dato dei buoni frutti perché è sotto gli occhi di tutti la trasformazione in positivo che ha avuto il nostro paese: l’ultimo Natale è stata la prova che abbiamo raggiunto un grande livello” dice Tonio.

Per Angelo il bicchiere è invece mezzo pieno: “io sono contento a metà. Ho sempre sognato un paese turistico con tanto movimento ma contemporaneamente ho sempre immaginato una serie di servizi che sarebbero dovuti crescere parallelamente: ci sarebbeancora così tanto da fare con un po’ di buona volontà”.

Una cosa che mi sono sempre chiesto è stata come Claudio Baglioni riuscì ad entrare nello stadio visto che era stato cinto d’assedio sin dalle prime luci dell’alba e che gli ingressi quelli erano: tutti molto visibili per tutti. E qui mi è venuto in soccorso l’avvocato Francesco Guida che quella sera si occupava della distribuzione delle bevande. Fu utilizzato il più classico degli stratagemmi. Si fece avvicinare all’ingresso auto di viale Olimpia un Ford Transit arancione tutto tappezzato di manifesti di Baglioni, lo stesso che Francesco aveva utilizzato, nelle settimaneprecedenti, come base logistica per le affissioni. Negli stessi istanti fu affidato il compito ad un paio di persone di cominciare a spargere la voce che in quel furgone, proprio quello, era nascosto Baglioni, sì là dentro, e fu così che in pochissimi secondi (altro che whatsapp!) tutti quelli che erano davanti allo stadio iniziarono a convergere in quel punto mentre il Claudio nazionale entrava tranquillamente, senza che nessuno se ne accorgesse, dall’ingresso degli spogliatoi in via Cisternino.

“La vita è adesso” viene pubblicato l’8 giugno 1985, ha venduto più di 4 Milioni di copie ed è l’album più venduto di sempre in Italia, è rimasto per 27 settimane consecutive primo in classificaed un anno e mezzo nella top ten.

“La vita è adesso… a Locorotondo!” Così erano tappezzati tutti i muri del paese in quella torrida estate di 35 anni fa. In quei giorni che ci fecero capire che potevamo essere re.

Pallastrada

Quando tre anni fa siamo stati chiusi in casa la testa ha preso ad inseguire i giorni in cui in casa non ci stavamo mai.
Perché continuamente per strada.
A giocare a calcio. O a qualcosa che gli assomigliasse: mischie furibonde in spazi che ci sembravano allora immensi, ora, ripassandoci, piccolissimi.
E così ho iniziato a catalogare alcuni luoghi dove giocavamo a pallone.

Era un altro sport.

Pallastrada, i campi del mio paese.


Denominazione campo: dietro al cinema
Caratteristiche:
Pendenza longitudinale: 5%
Pendenza trasversale: 3%
Elevata probabilità che il pallone fosse oggetto di taglio con accetta da parte di irreprensibile signore temuto da tutti e che abitava alla fine della discesa (ancora oggi ho paura a passarci)

Denominazione campo: da Peppazio
Caratteristiche:
Pendenza longitudinale: 3%
Possibili auto parcheggiate da dribblare o dietro cui nascondersi per eludere marcatura avversaria.
Porta ad est (contrassegnata con tre linee) confinante con quella che, in quegli anni ruggenti, era il giardino della caserma dei Carabinieri (la strada era cieca e non aperta su via Martina, come oggi). Questo comportava missioni suicide ogni qualvolta il pallone veniva sparato a minchia in quel giardino.

Denominazione: da Zichinetto
Caratteristiche:
Terreno di gioco in pietra locale (chianca) di ampiezza 9 metri per 5 con densità di giocatori pari al lungomare nella sera dei fuochi di San Rocco.
Presenza laterale di una bottega di calzolaio dal cui soprannome discende il nome del campo e di una parrucchiera (Franca) le cui ante in vetro più volte furono frantumate.
Presenza di balcone con fili per panni su cui andava sistematicamente ad impigliarsi la sfera, cosa che sottoponeva i giocatori a trovare il più lungo tra tutti al fine di issarlo alla stregua di un pennacchio per cercare di riprendersi il pallone.

Denominazione: da Anna della cantina
Caratteristiche:
Lingua di chianche di metri 10 x 3 senza via d’uscita: in pratica un padel prima ancora del padel.
Trerruote di Donato (marito di Anna, vedi sotto) perennemente parcheggiato nel campo e dal cui cassone si battevano i falli laterali che qualcuno, estemporaneamente e con grande genio visto che la palla non poteva mai uscire, chiamava tanto per darsi un tono.
La porta ovest (tre linee) coincideva con la porta est del campo di Zichinetto e quindi, in caso di contemporaneità di partite, si potevano osservare giocatori che cambiavano campo, palloni che si inserivano non si capisce da dove, Franca la parrucchiera che usciva urlando poiché il suo negozio
era proprio lì, sulla striscia di Gaza, dove un campo si fondeva nell’altro.
Accanto alla porta est l’ingresso della cantina di Anna (in giallo), luogo ameno dove ci stipavamo in 25 (grazie a Franco, suo figlio) la domenica alle 18.20 per guardare Paolo Valenti e 90° minuto.
È stato il mio campo di pallastrada preferito.

Denominazione: da Attilio
Caratteristiche:
Campo con doppia via di fuga (in giallo) su uno dei due lati di ciascuna porta: in questo modo si potevano battere fantasiosi calci d’angolo.
Presenza laterale del negozio di elettrodomestici di Lino Campanella (in celeste): qui si andavano ad ascoltare i dischi nel post partita.
Una delle due porte (in verde) coincideva esattamente con l’ingresso dell’edicola di Attilio motivo per cui andavano dribblati anche i clienti in entrata/uscita. Ma soprattutto e su tutto si ergeva, metafisica, la presenza della moglie di Attilio: seduta lateralmente alla porta d’ingresso dell’edicola, proprio sotto Cronaca Vera, su uno sgabello reso invisibile dalla sua monumentale stazza. Fu oggetto di molte spallommate: termine tecnico che indica un tiro di inaudita violenza scoccato da distanza ragguardevole.

Denominazione: alla Rutedda
Caratteristiche:
Nome dal taglio esterofilo. Alla Rutedda era per me qualcosa di simile al francese à la mode. Inoltre, per
semplice assonanza, mi faceva tanto lo stadio dell’Aston Villa visto una notte di mercoledì in un secondo tempo di una partita di Coppa dei Campioni.
Terreno da gioco rettangolare 15 meri per 7, in cementine, senza pendenza alcuna, ottima illuminazione notturna. Per tutto questo alla Rutedda non si andava a giocare come veniva, buttando le squadre a tocco chi c’era c’era. Alla Rutedda si andava previo appuntamento, con le squadre bell’e formate e cricca di sostenitori al seguito che si piazzavano nella parte alta della piazza accanto alla fontana da cui partivano, nelle sere estive, rinfrescanti gavettoni.
Notevoli le risse che si svolgevano: famosa quella in cui un amico, per vendicarsi d’essere stato deriso dagli avversari per l’intero incontro a causa della sua bassa statura, sferrò un calcio potentissimo, armato di sola Pescura Dr Scholl’s, alla tibia di un avversario fratturandosi, lui, l’alluce e passando l’intera estate
con gesso alto fino al ginocchio.
Unico neo: la quota del terreno di gioco sovrastava di un metro e mezzo quella del marciapiede che gli correva lateralmente (in verde) ragione per cui diverse spallommate  potevano cogliere (e coglievano!) in pieno volto incolpevoli passanti.

Denominazione: Largo Fiera
Caratteristiche:
Pendenza trasversale 5%
Pendenza longitudinale 2%
Illuminazione perfetta su lato strada e nulla su quello opposto.
Contornato da alberi di cui nessuno sapeva nome, avvizziti dalla notte dei tempi ma utilissimi per segnare le porte e le linee laterali.
Terreno di gioco composto da un materiale che non si capiva cosa fosse.
Non era asfalto, non era cemento.
Sembravano piccole pietre appuntite messe assieme con il vinavil.
Durissimo e rugoso.
Se ci cadevi era antitetanica sicura. Di sera brillava luccicoso, bellissimo e romantico, a causa di infiniti frammenti di vetro che erano il risultato di bottiglie frantumate durante lo svolgimento del mercato settimanale del venerdì.
Era per noi San Siro.
Ed anche l’estrema periferia. Accanto ci sorgeva (e c’è ancora) la scuola media.
Quella cosa di Venditti, della canzone che fa “davanti alla scuola, tanta gente, Otto e venti prima campana” per me è Aldo, il mio compagno di scuola col piede più educato che io abbia mai visto su quel campo, che calcia una punizione (alla Platini avremmo detto l’anno dopo), segna, mi fa l’occhiolino, piglia i due libri fasciati nella cinghia e viene verso di me.

Denominazione: giù al palo
Caratteristiche:
Campo di forma quadrata con terreno da gioco in asfalto e palo altissimo della pubblica illuminazione
piazzato al centro (in giallo).
Da qui un pezzo del suo nome a cui si aggiungeva l’avverbio “giù” quando a pronunciarlo erano giocatori che solitamente accarezzavano il pallone nel centro storico: questi ultimi erano quelli di adàlt.
Ci si andava in gruppo e io mi sentivo come Nemecsek che seguiva il suo Boka.
Non ci ho giocato molto. E se andavo mi ci portava Aldo che faceva il giro dei campi da mattina a sera perché era bravo e lo facevano giocare tutti.
Per me era abbastanza diversa la cosa: non dico che dovevo portarmi il pallone ma più o meno stavamo in quella zona li.

Sanremo per me

Mi piace Sanremo.

Non è sempre stato così. Sono stato un giovane contestatore anch’io e l’orchestra con il chitarrista che faceva gli assoli seduto sulla sedia come fosse ad una cena di gala non riuscivo proprio a capirlo.

Ma poi il tempo ti attraversa e molte delle canzoni che passavano da quelle parti hanno acquistato un senso diverso. Non è (solo) nostalgia. Ma capire, con colpevole ritardo, che lì dentro c’era un racconto di quegli anni, certamente non scritto solo per me (e io a sedici anni volevo che la musica fosse solo e tutta mia), sulle cui note io ho passeggiato anche non volendo.

Qui di seguito le mie 10 preferite di sempre raccolte tra quelle che ho ascoltato da quando ho memoria del Festival.

Anna Oxa, Un’emozione da poco (1978)

Il rapimento di Moro e la strage della sua scorta.

L’uscita da scuola, anticipata.

Il ritorno a casa e tutto il condominio per le scale a parlarsi fitto fitto.

E da una radio accesa in una cucina veniva fuori questa canzone.

Luca Barbarossa, Via Margutta (1986)

Subito dopo questa canzone iniziai a presentarmi alle feste con una giacca a quadretti verde acqua, terribile, sopra ad un paio di jeans scoloriti con il sovrappiù di sentirmi fighissimo.

Rudi Marra, Gaetano (1991)

Il periodo delle basette, delle feste, delle immense compagnie, degli amici, di tutti gli amici:.

Soprattutto quelli che non ci sono più.

Gerardina Trovato, Ma non ho più la mia città (1993)

Momento “pigliamo, cambiamo tutto e facciamo la rivoluzione”: 22 anni e non avevo più la mia città.

Carmen Consoli, Amore di plastica (1996)

Questa vince”, guardando negli occhi i miei coinquilini con i quali dividevo l’appartamento. Fu eliminata la prima sera.

Niccolò Fabi, Lasciarsi un giorno a Roma (1998)

La canzone da far ascoltare a chi ti dice che a Sanremo vanno solo canzoni scritte male.

Subsonica, Tutti i miei sbagli (2000)

I tre microfoni attaccati con il nastro adesivo

Deasonika, Non dimentico più (2006)

Una delle canzoni che passavano alla radio quella notte che mi aprì gli occhi

Malika Ayane, Come Foglie (2009)

E comunque il verso “è un inverno che va via da noi e allora come spieghi questa maledetta nostalgia” vale un sacco.

Tiziana Rivale, Sarà quel che sarà (1983)

Una domenica mattina, io vestito per andare in chiesa e mia madre in cucina che ascolta al Giornale Radio la canzone di chi ha vinto Sanremo perché “non ce l’ho fatta ad arrivare alla fine”.

Il tifoso e la farfalla (non è una canzone di Zarrillo)

Alle 8 di ogni mattina, vabbè non proprio tutte le mattine ma solo quando la sera ci sono le partite di cèmpions, vabbè non proprio quando ci sono tutte le partite di cèmpions ma solo quelle di una determinata squadra, alle 8 dicevo, invio il uozzapp “staseralapartitalapossovedereacasatua?” a Piero che dopo un minuto mi gira il suo “certochepuoi”.

Gianna mi chiede ogni volta perché mettiamo in scena questo minuetto.

“Piero lo conosci, vi vedete assieme le partite, tifate per la stessa squadra, che senso ha questa cosa del messaggio?”, dice lei.

Allora, provo a mettere le cose in fila e in ordine.

Primo: non è scaramanzia. Ne potrebbe avere lontanamente le sembianze ma non lo è.

Secondo: ha a che fare la teoria del caos e quella roba della farfalla.

Non sono scaramantico. Se un gatto nero mi attraversa la strada non tiro fuori il corno o la coda di volpe dal cruscotto, anche perché se apro il cruscotto viene fuori una cascata di cd ficcati dentro a pressione. Se c’è una scala piantata in mezzo al marciapiede ci passo tranquillamente sotto senza fare il giro dell’isolato. Apro l’ombrello quando sono in casa per giocare con la pupattola e mi siedo sulla scrivania se devo parlare con qualcuno. Insomma non me ne frega nulla. Per cui tutta quella roba lì sopra, lo scambio di uozzapp, la milonga con Piero, non è scaramanzia.

È altro.

Ed appartiene al cuore del tifoso. Di qualsiasi squadra. Fa parte di quella logica perversa per cui ciascuno di noi malati (perché questo siamo) crede in un universo perfetto nel quale con il nostro piccolo e ripetuto gesto, contribuiamo in maniera infinitesimale ma determinante (occhio che lo snodo è qui) alla performance del nostro team.

È in questo punto che il rituale si fa teoria del caos. Perché se ogni evento è sensibile alle condizioni iniziali, se  una cosa che va in un certo modo dipende (anche) da com’è cominciata, allora anche io posso dare il mio contributo alla vittoria reiterando i miei comportamenti originari, quelli che ci hanno portato il primo giorno a sconfiggere il primo avversario.

Quante volte nei film avete ascoltato che il minimo battito d’ali di una farfalla è in grado di provocare un uragano dall’altra parte del mondo? Ecco, nella testa dei malati (noi) le cose girano così.

Per cui quello che esteriormente può sembrare banale, triste e retrograda scaramanzia altro non è che pura fiducia nella fisica matematica, in Lagrange, Poincaré e Lorenz oltre che nel 4-3-1-2, in Pogba, Marchisio e Tévez.

E scusate ma adesso devo scrivere ad Aldo il “vieniavederelapartitadaPiero” sapendo che mi risponderà, da un numero diverso da quello a cui gli ho scritto, con un “nononposso” e tutto questo solo perché non è stato con noi dalla prima giornata.

80

Quando ero piccolo e uscivamo di casa e tu mi stringevi fortissimo l’avambraccio mentre camminavamo fianco a fianco sul marciapiede che era  stretto e le macchine passavano veloci e allora tu mi facevi stare dalla parte del muro e io non capivo perché non potessi saltellare sul cordolo facendo il gioco di non toccare le linee che stanno tra una pietra e l’altra.

E adesso che abbiamo invertito i ruoli, che tu stai dalla parte del muro, che io ti tengo il braccio e che tu non capisci perché continuo a saltellare tra una pietra e l’altra.

Auguri.

 

Do they know

14 anni, il primo liceo, il complesso d’inferiorità da quasi nano, i giri in villa comunale in senso inverso a quella che stavi braccando, la domenica a messa con le scarpe della domenica, una cinghia che ti teneva stretti i libri di scuola, la faccia di Pertini sulla cattedra, Locorotondo-Martina in autostop per far vedere che eri grande (ma sempre nano), le ragazze che guardavano solo quelli di quinta e tu non vedevi l’ora di arrivare in quinta (ma non da nano), il basket (sì, il basket da nano), il calcio, le partite in mezzo alla strada, le comitive infinite, la musica, e poi la musica, e ancora la musica e questi qui che proprio 30 anni fa registravano quella canzone che ancora oggi ti sa di luce gialla in cucina, alberi di Natale innovativi di tua madre, pennello da barba di tuo padre, cravatta a farfalla di tuo fratello e tu che non arrivi ancora a vederti per intero nello specchio in bagno. In quanto nano.

 

Il primo maschio sulla luna

Non fosse venuto a mancare Mike Nichols non mi sarebbe ritornata in mente.

Il film è “Il Laureato” e la scena non è quella finale di lui che corre urla fa a botte si piglia la donna che ama da sopra l’altare chiude tutti gli invitati dentro la chiesa bloccando la porta con un Cristo in croce fuggono insieme su un autobus sorriso finestrino posteriore musica hello darkness my old firiend I’ve come to talk with you again (punteggiatura consapevolmente non voluta).

Qui ci sono le farfalle nello stomaco.

In quella che dico io c’è invece il racconto per immagini del turbinio nella testa successivo alla prima volta. Sì a quella prima volta lì. Che adesso sarà sicuramente diversa: più o meno leggera, più o meno ansiogena, in ogni modo differente.

Ma per la generazione Postal Market, la mia, l’educazione sentimentale collettiva aveva contribuito a caricarne di parecchio il senso.

Per cui, il giorno dopo, c’era solo questa sensazione qui: come se si fosse andati sulla luna per primi. Per farne ritorno abbronzati e con gli occhiali da sole.

25 anni

6 novembre 1989.

Il primo giorno della mia prima settimana del mio primo anno di università.

Bari, via Postiglione, la casa

Senza tv e radio.

Senza telefono.

Con l’unica rete che conoscevo che era quella del materasso.

Ritornando a Locorotondo il venerdì pomeriggio, dopo un viaggio di 2 ore per 50 km con le Ferrovie del Sud Est, scopro che è caduto il muro di Berlino.

Pensai: “cazzo, e sono mancato solo una settimana”.

C’avevo il walkman con questa canzone dentro la cassetta.

 

I tuoi vent’anni portati così

Chissà perché poi mi succede che quando penso alla #pupattola che si farà grande, alle sue fermate dell’autobus alle 7 e mezza di mattina, ai suoi filoni, ai mal di pancia per saltare l’interrogazione, alle uscite notturne, ai silenzi che inevitabilmente verranno, alle lacrime da nascondere, ai sorrisi che ci saranno, mi viene in mente questa canzone qui del maestro: due che si sono voluti un sacco di bene, se ne vorranno ancora ma sanno che devono prendere strade differenti.

Che quando la ascoltavo 20 anni fa che ero solo un figlio sapevo già che sarebbe calzata a pennello 20 anni dopo quando sarei stato anche un padre.

 

Siamo tutti Florenzi

Il vestito blu con i puntini bianchi da domenica pomeriggio dopo pranzo, la collanina con la medaglietta al collo che sei sicuro che lei bacia ogni sera prima di andare a letto , il ventaglio e il fazzoletto nella stessa mano perché sente sempre caldo, gli orecchini con il pendente perché “sempre una donna sono”, gli occhiali da sole come Onassis, tutta questa roba ce l’abbiamo precisa ficcata dentro gli occhi da quando eravamo piccoli. Semplicemente perché quella nonna è la nostra nonna.

Che quando ho visto questa scena mi è venuto un brivido lungo le braccia.

E alla fine ho anche pensato che lei avrebbe bloccato il nipote, si sarebbe messa la mano nella tasca per tirarne poi fuori una caramella. Anzi due. Dicendogli che l’altra era per Totti.

La mia mi regalava le Rossana, quelle rosse con la carta che scrocchiava.

P.S.

Che poi mi doveva capitare di fare un post su un giocatore della Roma. A me, a me. Che c’avevo il poster di Platini in camera.