Pallastrada

Quando tre anni fa siamo stati chiusi in casa la testa ha preso ad inseguire i giorni in cui in casa non ci stavamo mai.
Perché continuamente per strada.
A giocare a calcio. O a qualcosa che gli assomigliasse: mischie furibonde in spazi che ci sembravano allora immensi, ora, ripassandoci, piccolissimi.
E così ho iniziato a catalogare alcuni luoghi dove giocavamo a pallone.

Era un altro sport.

Pallastrada, i campi del mio paese.


Denominazione campo: dietro al cinema
Caratteristiche:
Pendenza longitudinale: 5%
Pendenza trasversale: 3%
Elevata probabilità che il pallone fosse oggetto di taglio con accetta da parte di irreprensibile signore temuto da tutti e che abitava alla fine della discesa (ancora oggi ho paura a passarci)

Denominazione campo: da Peppazio
Caratteristiche:
Pendenza longitudinale: 3%
Possibili auto parcheggiate da dribblare o dietro cui nascondersi per eludere marcatura avversaria.
Porta ad est (contrassegnata con tre linee) confinante con quella che, in quegli anni ruggenti, era il giardino della caserma dei Carabinieri (la strada era cieca e non aperta su via Martina, come oggi). Questo comportava missioni suicide ogni qualvolta il pallone veniva sparato a minchia in quel giardino.

Denominazione: da Zichinetto
Caratteristiche:
Terreno di gioco in pietra locale (chianca) di ampiezza 9 metri per 5 con densità di giocatori pari al lungomare nella sera dei fuochi di San Rocco.
Presenza laterale di una bottega di calzolaio dal cui soprannome discende il nome del campo e di una parrucchiera (Franca) le cui ante in vetro più volte furono frantumate.
Presenza di balcone con fili per panni su cui andava sistematicamente ad impigliarsi la sfera, cosa che sottoponeva i giocatori a trovare il più lungo tra tutti al fine di issarlo alla stregua di un pennacchio per cercare di riprendersi il pallone.

Denominazione: da Anna della cantina
Caratteristiche:
Lingua di chianche di metri 10 x 3 senza via d’uscita: in pratica un padel prima ancora del padel.
Trerruote di Donato (marito di Anna, vedi sotto) perennemente parcheggiato nel campo e dal cui cassone si battevano i falli laterali che qualcuno, estemporaneamente e con grande genio visto che la palla non poteva mai uscire, chiamava tanto per darsi un tono.
La porta ovest (tre linee) coincideva con la porta est del campo di Zichinetto e quindi, in caso di contemporaneità di partite, si potevano osservare giocatori che cambiavano campo, palloni che si inserivano non si capisce da dove, Franca la parrucchiera che usciva urlando poiché il suo negozio
era proprio lì, sulla striscia di Gaza, dove un campo si fondeva nell’altro.
Accanto alla porta est l’ingresso della cantina di Anna (in giallo), luogo ameno dove ci stipavamo in 25 (grazie a Franco, suo figlio) la domenica alle 18.20 per guardare Paolo Valenti e 90° minuto.
È stato il mio campo di pallastrada preferito.

Denominazione: da Attilio
Caratteristiche:
Campo con doppia via di fuga (in giallo) su uno dei due lati di ciascuna porta: in questo modo si potevano battere fantasiosi calci d’angolo.
Presenza laterale del negozio di elettrodomestici di Lino Campanella (in celeste): qui si andavano ad ascoltare i dischi nel post partita.
Una delle due porte (in verde) coincideva esattamente con l’ingresso dell’edicola di Attilio motivo per cui andavano dribblati anche i clienti in entrata/uscita. Ma soprattutto e su tutto si ergeva, metafisica, la presenza della moglie di Attilio: seduta lateralmente alla porta d’ingresso dell’edicola, proprio sotto Cronaca Vera, su uno sgabello reso invisibile dalla sua monumentale stazza. Fu oggetto di molte spallommate: termine tecnico che indica un tiro di inaudita violenza scoccato da distanza ragguardevole.

Denominazione: alla Rutedda
Caratteristiche:
Nome dal taglio esterofilo. Alla Rutedda era per me qualcosa di simile al francese à la mode. Inoltre, per
semplice assonanza, mi faceva tanto lo stadio dell’Aston Villa visto una notte di mercoledì in un secondo tempo di una partita di Coppa dei Campioni.
Terreno da gioco rettangolare 15 meri per 7, in cementine, senza pendenza alcuna, ottima illuminazione notturna. Per tutto questo alla Rutedda non si andava a giocare come veniva, buttando le squadre a tocco chi c’era c’era. Alla Rutedda si andava previo appuntamento, con le squadre bell’e formate e cricca di sostenitori al seguito che si piazzavano nella parte alta della piazza accanto alla fontana da cui partivano, nelle sere estive, rinfrescanti gavettoni.
Notevoli le risse che si svolgevano: famosa quella in cui un amico, per vendicarsi d’essere stato deriso dagli avversari per l’intero incontro a causa della sua bassa statura, sferrò un calcio potentissimo, armato di sola Pescura Dr Scholl’s, alla tibia di un avversario fratturandosi, lui, l’alluce e passando l’intera estate
con gesso alto fino al ginocchio.
Unico neo: la quota del terreno di gioco sovrastava di un metro e mezzo quella del marciapiede che gli correva lateralmente (in verde) ragione per cui diverse spallommate  potevano cogliere (e coglievano!) in pieno volto incolpevoli passanti.

Denominazione: Largo Fiera
Caratteristiche:
Pendenza trasversale 5%
Pendenza longitudinale 2%
Illuminazione perfetta su lato strada e nulla su quello opposto.
Contornato da alberi di cui nessuno sapeva nome, avvizziti dalla notte dei tempi ma utilissimi per segnare le porte e le linee laterali.
Terreno di gioco composto da un materiale che non si capiva cosa fosse.
Non era asfalto, non era cemento.
Sembravano piccole pietre appuntite messe assieme con il vinavil.
Durissimo e rugoso.
Se ci cadevi era antitetanica sicura. Di sera brillava luccicoso, bellissimo e romantico, a causa di infiniti frammenti di vetro che erano il risultato di bottiglie frantumate durante lo svolgimento del mercato settimanale del venerdì.
Era per noi San Siro.
Ed anche l’estrema periferia. Accanto ci sorgeva (e c’è ancora) la scuola media.
Quella cosa di Venditti, della canzone che fa “davanti alla scuola, tanta gente, Otto e venti prima campana” per me è Aldo, il mio compagno di scuola col piede più educato che io abbia mai visto su quel campo, che calcia una punizione (alla Platini avremmo detto l’anno dopo), segna, mi fa l’occhiolino, piglia i due libri fasciati nella cinghia e viene verso di me.

Denominazione: giù al palo
Caratteristiche:
Campo di forma quadrata con terreno da gioco in asfalto e palo altissimo della pubblica illuminazione
piazzato al centro (in giallo).
Da qui un pezzo del suo nome a cui si aggiungeva l’avverbio “giù” quando a pronunciarlo erano giocatori che solitamente accarezzavano il pallone nel centro storico: questi ultimi erano quelli di adàlt.
Ci si andava in gruppo e io mi sentivo come Nemecsek che seguiva il suo Boka.
Non ci ho giocato molto. E se andavo mi ci portava Aldo che faceva il giro dei campi da mattina a sera perché era bravo e lo facevano giocare tutti.
Per me era abbastanza diversa la cosa: non dico che dovevo portarmi il pallone ma più o meno stavamo in quella zona li.

Esercizio 4 – La casa in cui sono nato e cresciuto

Photo by Kelly on Pexels.com

Durante il lockdown, il primo, mi sono iscritto ad un corso di scrittura. Ascoltare storie è una delle cose che più mi piace fare.

Tirarne fuori qualcuna ho pensato, presuntuosissimo, mi avrebbe dato una mano a costruire un’idea di senso su quello che mi correva attorno.

Adesso che sto inscatolando foto, libri, fogli di giornale nella vecchia casa dei miei è chiaro che con quei racconti mi stavo semplicemente allenando nel farmi trovare pronto.

Questo è l’esercizio n. 4


La porta d’ingresso marrone, due serrature, grande sopra e piccola sotto, è la stessa di tanti condomini italiani dei secondi ’60 quando il futuro esplose appena un attimo prima che arrivassero a farlo le bombe.

La raggiungo uscito dall’ascensore con la cassetta dove infilare le 10 lire, la targa “Portata max 160 Kg”, la tappezzeria strappata, incisa di cuori, svastiche e t’amomarianna.

Entro, sono nel soggiorno, a destra l’attaccapanni accanto ad una piccola credenza con le nostre vecchie foto alternate a bomboniere di coppie dimenticate. Di fronte, una madia rustica con il centrino ad uncinetto ricopre l’anta a cerniera.

Nel corridoio. Lunghissimo.

Con una graniglia di frammenti irregolari di marmo come tappeto ed un battiscopa grigio che gli corre sui fianchi spezzandosi solo all’affacciarsi delle stanze.

A sinistra il salotto con un paio di divani, il tavolino basso esagonale con le riviste, la scrivania con la vecchia macchina da scrivere, foglia bianchi e carta carbone, la tivù, il carrello con i liquori pronti da servire, il lampadario che starebbe bene nell’astronave di Star Trek e una libreria di legno laccato bianco, gigante, che rimbalza i raggi di sole che arrivano dalla finestra aperta sui quadri appesi alle pareti.

Dall’altra parte, a fare da contrappeso, la cucina con la luce giallognola amara delle 5 di pomeriggio di tutte le nostre vite: le stoviglie in ordine, la radio accesa sul frigo che passa una canzone della Bertè, il profumo di vaniglia dei biscotti, la chiavetta del gas chiusa.

Più avanti c’è la sala da pranzo con il tavolo al centro mentre un vaso con gerbere arancioni, il punto più luminoso, richiama i toni della tenda che copre la porta finestra d’accesso al balcone. Una credenza noiosa mette in mostra il servizio di posate buono della festa, i piatti con il bordo in oro zecchino mai usati e i bicchieri in cristallo Baccarat.

Un paio di passi ancora e sono davanti alla porta del bagno: le piastrelle celesti, lo specchio con la mensola di vetro sbeccata appiccicata alla parete, 4 spazzolini ed un dentifricio nel bicchiere sul lavandino, la vasca da bagno smaltata bianca, il borotalco sul bordo.

A chiudere la pianta, infine, le due stanze da letto.

Nella prima domina un matrimoniale, il materasso alto e duro, i comodini con le due Eclissi, la cassettiera con lo specchio e l’armadio che tappezza un intero lato: tutto in tinta. Su una parete, tra due orrendi ritratti en plein air, un piccolo calco in bronzo acquistato, dicono, in un lontano viaggio a Parigi.

Affianco ma con una foratella da 8 più un paio di centimetri di intonaco a separare sogni, sonni, umori ed amori due letti sfranti, una scrivania. Due sedie si intravedono a malapena tra jeans e magliette alla rinfusa, poi uno stereo, una pallina gialla da tennis sopra una mensola che sembra essere lì più come traversa di una immaginaria porta da calcio che per reggere dischi, libri e cassette.

Attaccate con lo scotch trasparente sull’armadio verde acqua come i muri, tante fotografie. E due poster: Patsy Kensit e Platini.

Lei ha una spallina sul punto di cadere, lui è sdraiato sul fianco, un gomito sul prato e la mano sulla guancia a tenergli la testa sollevata. Ha gli occhi che luccicano mentre guarda qualcosa. Non sembra molto lontana, sorride.

Lucine

Lo scorso fine settimana il borgo antico di Locorotondo è stato visitato da migliaia di persone (10.000 tra sabato e domenica) giunte ad ammirarne strade, vicoli e palazzi illuminati a giorno per il Natale.

Da una decina di giorni, infatti, sono stati inaugurati alcuni percorsi luminosi in virtù di, ho appreso leggendo un comunicato stampa sull’ultimo numero di Paese Vivrai, “un progetto che ha visto per la prima volta un coordinamento dal punto di vista estetico, artistico ed organizzativo tra residenti, attività commerciali e privati”.

Con la premessa che chiunque si adoperi per il proprio paese mettendo a disposizione tempo ed energie sottraendoli ad affetti e lavoro compie un servizio alla comunità a cui ciascuno deve rendere omaggio, è doveroso cercare di comprendere il fenomeno, capirne le dinamiche, leggerlo per trarne, tutti, qualche lezione.

Ritengo non si possa riprendere dal 2019, primo anno del boom degli addobbi natalizi a Locorotondo, come se nulla fosse accaduto.

Non solo perché qualcosa è accaduto ma, addirittura, perché quella cosa sta ancora accadendo.

E continuerà ad accadere.

Siamo nel pieno della quarta ondata che sta causando una nuova crescita di casi e un aumento dei ricoveri in terapia intensiva in molti paesi europei tra cui l’Italia.

Ma quella di oggi non è più l’epidemia dello scorso anno. Sono cambiate un mucchio di cose: ci sono i vaccini, che offrono una protezione contro le forme gravi della COVID-19, ci sono varianti più contagiose, ci sono meno restrizioni.

Con quello che solo un paio di anni fa guardavamo nei film di fantascienza e che ci sembrava appartenere ad un mondo che non poteva essere il nostro ci toccherà convivere per diverso tempo.

Lo faremo, ci adatteremo: meglio, sono due anni che ci stiamo adattando.

Allo stesso tempo mi sembra che, lentamente, abbiamo rimosso le cause che ci hanno portato qui: c’entrano la distruzione delle foreste e il nostro rapporto spesso aggressivo nei confronti della natura. Spillover, zoonosi, salto delle specie, concetti che ci sono stati familiari meno di due anni fa sono stati accantonati per fare spazio a nuovi. Giallo, arancio e rosso. Green pass. Super green pass.

Ma il problema è sempre lì, ammucchiato sotto al tappeto. Intatto.

A ricordarcelo sono i nostri ragazzi, quelli che scendono in piazza e hanno costretto a mettere al primo punto delle agende politiche di tutto il mondo le questioni legate alla sostenibilità ambientale, alla transizione ecologica ed alla crisi climatica.

Ed è in questo quadro che dobbiamo inserirci.

In questo contesto politico, sociale, economico e culturale dobbiamo agire.

E allora, stringo, organizzare un evento come quello delle luminarie a Natale è sostenibile, qui ed ora avremmo detto tempo fa, ambientalmente?

Ha senso firmare appelli, contestare i grandi del mondo per il loro agire politico e poi noi, nel nostro piccolo, fare l’esatto opposto di quello che urliamo? Possiamo chiedere agli altri di consumare meno risorse se ci comportiamo in maniera opposta? È coerente questo atteggiamento?

E ancora: questo evento è sostenibile urbanisticamente?

Non è un mero problema di parcheggi che pure è un tema.

Quello che mi chiedo è se hanno un senso 6.500 persone (dato di domenica 21 novembre) che nello spazio di poche ore attraversano un contesto urbano, il centro storico di Locorotondo, che ne ospita meno di mille. Per fare un esempio è come se a casa vostra vi dicessero: siete in 4? Bene, domani dalle 5 alle 10 di sera, sarete in 28. Vedete voi come dovete fare per condividere bagni, cucina, stanze e Netflix.

E infine, ma è la domanda delle domande: qual è la strategia sottesa a tutto?

Ho cinquantuno anni e da quando indossavo i calzoni alla zuava e le occhio di bue ascolto e leggo che “dobbiamo puntare al turismo di qualità” ma mai uno che abbia provato a spiegare cosa sia il turismo di qualità. Meglio. Cosa concorra a determinare un turismo di qualità.

Perché siamo tutti contrari a parole al mordi e fuggi, non ci piacciono le masse oceaniche che arrivano, si fanno la foto nel vicolo, sporcano e scappano, ma non riusciamo a sederci per disegnare una strategia che rivolga i propri occhi ad altri pubblici, nicchie, meno numerose ma con capacità di spesa maggiore, costruire tasselli e servizi che diventino terreno su cui far fiorire iniziative ed idee private all’interno di un quadro di rifermento condiviso.

E queste cose non si improvvisano: hanno bisogno di competenze, varie, costano fatica, tanta, tempo e pazienza e cura infinita.

Tutte risorse che non vanno molto di moda nel Natale locorotondese più instagrammabile di sempre.

Riaprire, un post

Vado contromano.
Credo che sia giusto per bar e ristoranti attendere per la riapertura.
Perché queste attività non vendono solo cibo: questo lo si può fare in take away, oltre che in delivery, da lunedì.
Queste attività sono un pezzo della socialità e convivialità.
E ritengo che sia il bene più prezioso da presidiare e non bruciare: in questi due mesi abbiamo imparato a sfangarla in cucina ma ci mancano gli amici al tavolino a ridere e scherzare (almeno a me).
Aprire adesso, subito, temo possa bruciare questo capitale.
Perché se non abbiamo, oltre a procedure e protocolli interni alle aziende da rispettare, anche un modello di protezione generale che dia supporto, sostanza e sicurezza a tutti e mi riferisco ai sistemi di tracciamento, ai test sierologici, alla mappatura epidemiologica, ad una messa a punto dei sistemi sanitari a livello territoriale allora possiamo aprire quando vogliamo ma credo che saranno in pochi a volersi sedere senza guardarsi alle spalle (no, il plexiglas no).
Quello che è indispensabile è non perdere un minuto di tempo in più per l’iniezione di liquidità. Questo è il ritardo che ci ammazza e che al contrario ci permetterebbe anche di stare chiusi qualche settimana in più aspettando che tutte quelle cose che ho scritto prima si mettano in fila: il dibattito su queste misure va avanti ormai da due mesi e va messo un punto.
Questi soldi che arrivano sono prestiti da restituire, certo. Nessuno si illude e vuole che gli venga regalato qualcosa.
Ma abbiamo bisogno di fiducia e le istituzioni devono essere in grado di metterla in campo.
Basterebbe avere tempestività e allineamento tra conferenze stampe e successiva implementazione delle procedure.
Basterebbe la serietà.

Prenderli sul serio

Alla fine vorrei provare a prenderli sul serio e immaginare quello che potrebbe accadere subito dopo il voto, la notte dello spoglio.

Con la premessa indispensabile che i sondaggi, gli ultimi sondaggi, ci prendano.

E che quindi diano come risultato un Parlamento senza alcuna maggioranza politica ma con un partito, il Movimento 5 Stelle, abbondantemente primo.

A questo punto, a prenderli sul serio, l’onorevole Di Maio ha più volte ribadito che la sera delle elezioni farà “un appello pubblico alle altre forze politiche che sono entrate in Parlamento presentando il nostro programma e la nostra squadra. E governeremo con chi ci sta”.

In quel preciso istante, nel momento esatto in cui pronuncerà quelle parole, si andrà a creare un conflitto istituzionale per cui il partito di maggioranza relativa si affida il compito di comporre una maggioranza parlamentare esautorando il Presidente della Repubblica dal compito che la Costituzione gli assegna.

Il Presidente della Repubblica, primo garante della Costituzione, a questo punto avrà due strade. Ratificare (sic!) l’incarico all’onorevole Di Maio oppure indire le consultazioni con i vari gruppi parlamentari e solo successivamente, sulla base dei riscontri ottenuti, affidare l’incarico per la costruzione di un nuovo governo: in questo caso l’esponente apparterrà ad un partito o movimento politico differente dai 5 Stelle o, al limite a nessun partito.

Scegliendo la prima strada il Presidente della Repubblica abdicherà nei fatti al suo ruolo: le conseguenze tiratele voi.

Percorrendo la seconda di strada il Movimento 5 Stelle indosserà il suo vestito preferito, quella di vittima del sistema, dei complotti e della casta. I giornali della borghesia illuminata gli continueranno, per timore di perdere le loro riconquistate rendite di posizione, a lisciare il pelo insistendo a non vedere il tratto eversivo connaturato al loro agire politico. La gente sarà chiamata a scendere in piazza. Gli animi si riscalderanno.

Questo a prenderli sul serio.

Continuando invece a dipingerli e descriverli come un pezzo della grande commedia popolare del nostro Paese andrà a finire molto peggio.

Riflusso 2.0

Premessa 1

Questo è un blog, più o meno attivo, da 15 anni. Ha vissuto almeno un paio di vite su altre piattaforme e avuto periodi più o meno lunghi di letargo. I suoi post, alla fine, non sono altro che i puntini che uniscono la linea di un pezzo non piccolo della mia vita. Ne sono affezionato. In fondo è la mia coperta di Linus. È la mia stanzetta con la porta socchiusa da cui, chi vuole, con educazione e rispetto, può sbirciare.

Premessa 2

Non scrivo, qui, da quasi un anno. Forse non ne avevo l’urgenza. Forse non ne avevo il tempo. O la voglia.

O più semplicemente avevo bisogno di tempo per mettere un po’ di ordine tra una serie di appunti che andavo seminando un po’ ovunque nella mia testa. C’era la necessità di aspettare che il vento calasse, il mare si calmasse e la sabbia scendesse sul fondo per poter vedere in trasparenza quella corrente che ci va avvolgendo.

Scusa se non parlo abbastanza ma ho una scuola di danza nello stomaco (Coez)

È venuto fuori qualche giorno fa. Prima una cena con alcuni vecchi amici. Poi Gianna che dice di vedermi “aspè devo trovare le parole giuste, non è disilluso, neanche allineato o sottomesso, forse troppo silenzioso, quasi dimesso; il fatto è che non t’incazzi più per quello che non va, adesso lo fai solo quando gioca la Juve in champions”. Ci ho pensato. Ha ragione (soprattutto sulla Juve in champions). E come sempre è accaduto nelle nostre vite è stata lei, chesaràmai, a farmi capire dov’ero e come ci sono arrivato da quelle parti.

E allora quegli appunti sparsi nel cervello hanno iniziato a prendere una forma, ad incastrarsi l’uno con l’altro, a creare un ordine ed un ragionamento.

Ho capito così di aver deciso, inconsciamente ieri razionalmente oggi, di non voler prendere parte ad un dibattito pubblico che non mi piace.

Non mi piace per i toni.

Non mi piace perché si gioca su un terreno dove vince la rabbia.

Non mi piace perché la competenza e l’esperienza sono un disvalore.

Non mi piace perché potrei sommare all’arroganza di esprimere una qualsiasi opinione sulla riforma del sistema bancario, di cui non capisco assolutamente nulla, la presunzione che quelle mie parole debbano essere pesate almeno quanto quelle del Governatore della Banca Centrale Europea.

Non mi piace perché i più violenti sono quelli della mia generazione: cresciuti con il telefono a disco in casa e che il cellulare fa sentire onniscienti.

Non mi piace perché lì dove potevamo costruire un campo da gioco dove ritrovarsi padri e figli, nonni e nipoti ci siamo disegnati una bolla e uno specchio, una stanza dove risuona solo la voce nostra e di quelli che la pensano esattamente come noi.

Non mi piace perché i nostri figli e nipoti ci schifano assai: a noi e alle nostre piazze che frequentiamo vestiti con la sciarpa da hooligan. Hanno altre spiagge dove piantare ombrelloni e stendere teli, popolano lidi verso i quali da maestri saccenti puntiamo il ditino dimenticandoci che oggi quelli con l’anello al naso siamo noi.

E allora “scusa se non parlo abbastanza” diventa l’unica strategia possibile.

Come pensare che Ian Solo oggi sostituirebbe la forza con la resilienza.

Come ritenere la libertà di non dover esprimere un parere su qualsiasi cosa accada nell’universo una delle conquiste più importanti dell’uomo dalla scoperta del fuoco.

Come credere che il rifiutarsi di giocare su un terreno impraticabile sia l’unico modo per non farsi del male.

Come concentrarsi sulle piccole cose, fare bene il proprio lavoro, tenersi stretti affetti, libri, dischi, film e serie tv (ad averci il tempo per vederle), costruirsi un’arca.

Mettere in fila i sacchetti di sabbia prima dell’arrivo della piena.

Aspettare che passi.

Perché passerà.

Primismo

Prima gli abitanti del pianeta Terra.

Prima prima però gli italiani.

Ma prima prima prima i pugliesi.

E prima prima prima prima i locorotondesi.

Benché prima prima prima prima prima debbano venire i locorotondesi del centro storico.

E soprattutto prima prima prima prima prima prima i locorotondesi del centro storico che risiedono in via Morelli 34.

Ritornare simpatici

È una battuta di Oscar Farinetti e forse la spia di qualcosa di più profondo che va parecchio dritto alla sostanza delle cose.

Abbiamo perso il referendum anche (ho scritto: anche) perché stiamo sui cabasisi ad un sacco di persone?

Secondo me sì.

È vero, siamo stati sulle palle da sempre ad un pezzo del nostro stesso partito e della sinistra. Ma era logico: dopo lustri di attesa era arrivato il loro turno sulla giostra e gli si è fatto saltare in aria il luna park. Non l’hanno presa bene e se la sono segnata.

Poi però qualcosa è cambiato e molto si è aggiunto.

Si è andati al governo, se ne sono infilate diverse buone (con le condizioni date) mentre su alcune si è cincischiato o si è andati con il freno a mano tirato.

A questo punto invece di dire sinceramente “ragazzi questo è il meglio che possiamo fare adesso magari ci date una mano e si riesce a fare di più” o anche, avendo più senso della realtà e pelo sullo stomaco “è vero noi avevamo promesso di farlo in un altro modo ma pensavate che X e Y venissero a dare la fiducia gratis?” ci siamo ritrovati rinchiusi in curva con la sciarpa dell’ultras attorno al collo a difendere cose anche non di molto buon senso (viste dall’esterno).

In pratica ci siamo incartati in una narrazione slegata, a tratti, dai fatti.

E ora? Come si ritorna simpatici o quantomeno “diversamente antipatici”?

Secondo me con tre mosse:

  1. Ammettere di aver perso e in questo, bisogna riconoscerlo, Renzi è il numero 1 in Italia: anche perché gioca da solo nella categoria. Gli altri, quando perdono o “non vincono”, fanno come Fonzie (video alla fine).
  2. Uscire dalla bolla, comprare un paio di scarpe comode ed andare ad incontrare le persone, soprattutto quelle che hanno votato no al netto degli hooligan (ci sono da una parte e dall’altra ma sono solo rumore sui social), ascoltare, ascoltare e ancora ascoltare, confrontarsi per capire cosa c’è in mezzo a quel mare lì.
  3. Noi siamo i buoni? Vediamo di dimostrarlo.

 

P.S.

Astenersi da commenti: anime belle e benaltristi

 

Mi raccomando, non personalizziamo

Ho letto negli ultimi giorni alcune interviste al senatore Quagliarello.

Il senatore ci teneva a motivare la sua campagna per il No alla Riforma Costituzionale affermando che i costi della politica restano intatti, che stiamo andando a votare una Riforma di parte e che siamo chiamati a votare contro l’arroganza.

Volevo chiedere, da fesso che sono, ma se la Riforma  era una così brutta cosa (legittimo pensarlo ed agire di conseguenza) perché il senatore Quagliarello nelle 3 votazioni finali al testo di Riforma Costituzionale si è espresso le prime 2 volte a favore (seduta n. 303 del 08/08/2014 e seduta n. 522 del 13/10/2015) e nell’ultima (seduta n. 563 del 20/01/2016) si è proprio assentato?

Così, per capire.