Mi piace la politica.
Mi piace discutere di politica.
Sono cresciuto con mio padre che mi portava alle riunioni del suo partito: erano stanze fumose dove si parlava di cose che non capivo ma che mi piacevano perché venivano sputate con una foga mista ad entusiasmo, la sigaretta a mezza bocca, tentando di convincersi l’uno con l’altro attraverso ragionamenti che mi sembravano assurdi nei toni (urlavano tutti) ma al tempo stesso concretissimi (alla fine si stringevano le mani). Duravano ore. A volte mi è capitato di addormentarmi su un divano di velluto verde. Altre passavo il tempo a raccattare cicche spente da un posacenere di marmo appoggiandole di nascosto sul labbro per mimare meglio i gesti di quegli adulti che mi sembravano così grandi. Quei modi di fare li ho sentiti subito miei e li ho coltivati.
Ho ucciso mio padre con la politica. Meglio. Ho tentato di uccidere mio padre con la politica. Per emanciparmi, uscire al mondo da solo, fargli capire in qualche modo che crescevo. È per questo che il mio primo voto fu comunista, una settimana dopo Tienanmen, nel 1989, quando lui era sindaco a capo di un monocolore democristiano. Ma non l’ho ucciso, non l’ho neanche ferito. Anzi, quando sono passati un po’ di anni ho capito che la pistola in mano me l’aveva messa lui, l’aveva caricata a salve congegnando il piano perfetto di allevare due figli con cui poter passare il tempo della sua vecchiaia a discutere di politica.
Ho allacciato, con la politica, le amicizie di una vita. Ci siamo presi, lasciati, incazzati, abbracciati, ripresi, rilasciati come dei fidanzanti cretini e quando ci vediamo, più raramente di prima ma ci vediamo, litighiamo ancora e magari le persone che ci stanno attorno in quel momento si spaventano pure pensando che la discussione possa degenerare, ma noi lo sappiamo che non sarà così: è solo il gioco infantile fatto da adulti di gareggiare a chi ce l’ha più lungo.
Posso quindi dire, con esattezza, che tutta la mia esistenza è stata permeata dalla politica. Non so se sia stato un bene o un male ma è così. Certo, adesso non mi chiudo in casa per vedermi Santoro in tivù e quando la mattina vado in edicola a comprare il giornale comincio a sfogliarlo partendo dalle ultime pagine. Insomma, la prendo un po’ più larga. Però la bestia è lì. Sotto la cenere.
E allora quando è iniziato l’iter di riforma costituzionale ho cominciato ad informarmi, ho cercato di capire, ascoltare e leggere pareri differenti. Insomma, formarmi nel tempo un’opinione.
In queste ultime settimane ho iniziato a seguire un po’ di confronti. È un referendum. Ci sono due posizioni in gioco. Dentro o fuori. Sì o no. Non dovrebbe essere molto complicato argomentare il perché si dovrebbe votare in un senso o nell’altro.
E invece mi sono accorto che una parte ha impostato la propria campagna referendaria sul concetto di barbarie. Chi è per il Sì, la tocco piano, scusatemi per questo ma facciamo a capirci, allora chi è per il Sì dicevo è un barbaro oppure un vassallo del potere oppure un pezzo organico alla formazione di una nuova dittatura oppure un suddito della JP Morgan, colei che per alcuni ha effettivamente scritto la legge di riforma costituzionale, oppure un pupazzo manovrato che non si rende conto del disastro che verrà oppure una persona senza scrupoli e dai principi corrotti.
Se non credete a quel che scrivo potete tentare un esperimento sociale: andate sul vostro profilo Facebook ed inserite secco come status un bel “ho deciso: al referendum voterò sì”. In un’oretta (se siete di sinistra ed avete amici social di sinistra sinistra e/o cinquestelle e/o complottisti anche in mezz’ora) avrete ottenuto un discreto numero di quei commenti.
Ecco, tutto questo mi ha iniziato a creare non poco disagio.
Capisco la contesa politica dura, aspra ma non comprendo l’identificare intenzionalmente la parte avversa, qualunque essa sia, come una usurpatrice, una roba zozza e sporca, qualcosa che non dovrebbe esistere in un consesso democratico. Perché quando dal merito delle cose si passa al retropensiero, al sospetto, alla linea tirata per terra ad indicare che chi è dalla mia parte è nel giusto e chi dall’altra nel torto non credo che si possa fare molta strada.
Allora ho maturato un piccolo ragionamento difensivo, sicuramente scemo, ma che mi ha aiutato a venire fuori dalla secca emotiva nella quale mi sono ritrovato.
Voterò Sì.
Ma non (più) per una convinzione sul merito (che più ci avvicineremo al voto e meno fregherà a tutti), né per quel senso politico di responsabilità che mi si è tatuato addosso ad una certa età (invecchio e mi addolcisco: è un fatto) facendomi sempre votare con molta coscienza e leggerezza il partito di sinistra con le proposte più concrete e meno velleitarie, né perché penso sempre, in maniera molto infantile, che il futuro e le cose che verranno saranno più interessanti (belle o brutte che siano) di quelle che ci lasciamo dietro.
Voterò Sì semplicemente perché non voglio salvarmi, perché non sono un puro, perché voglio essere complice di quello che accade, perché preferisco la fragilità delle cose che si fanno con grande affanno al fascino inossidabile di chi la sa da sempre più lunga di tutti.